Ho letto L’economia giusta, di Edmondo Berselli.

Ho letto questo libro di Edmondo Berselli sull’abbrivio di una straordinaria recensione di Ilvo Diamanti, firma di Repubblica che leggo sempre con piacere, in cui questo testo viene presentato come:

Il testamento di Berselli per una società più giusta.

E se l’economia può far soggezione, la società più giusta è già un concetto che sento più vicino.

E che mi invoglia a scrivere, che sento sulla pelle tutti i giorni.

In fondo chi ci ha rimesso i risparmi con la Cirio o la Parmalat è gente normale come me… e la copertina del libro promette:

Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società.
Una via cristiana per uscire dalla grande crisi.

Concordo con tutte le premesse dell’autore, mi sono lasciato affascinare dall’acutezza dei riferimenti, ho infinitamente apprezzato le aperture culturali poste con elegante nonchalance, tono sempre leggero e sostanza profusa a piene mani.

Senz’altro un maestro (uno che sintetizza il sessantotto così come lo chiamate? “La sconfitta peggiore è quella di avere creduto per tanto tempo nella rivoluzione impossibile, come se fosse una soluzione politica praticabile, e avere dimenticato che le società avanzate vanno modificate con la fatica lenta delle riforme, non con i sogni rivoluzionari. Ci vuole l’utopia concreta che si approssima con il pragmatismo, mentre troppo spesso i sogni hanno la cattiva tendenza di diventare incubi), che mi rammarico di non aver seguito prima, quand’era ancora in vita.

“L’economia giusta” è infatti il libro che ha scritto durante la malattia, nei suoi ultimi giorni.

Il liberismo sfrenato, le superstizioni spacciate per verità (“i soldi che fanno soldi”), l’illusione della crescita senza limiti… come non essere d’accordo?

E proprio questa sintonia assoluta che crea con il lettore (con me di sicuro), prepara il terreno per una conclusione forte, all’altezza della lucidità critica di queste pagine, una rivelazione cui un’intelligenza di questo livello non può non arrivare.

“La via cristiana per uscire dalla grande crisi”, come dice appunto la copertina.

E invece… l’ultimo capitolo del libro “Una via d’uscita” descrive una ricetta un po’ blanda, sensatissima ma improbabile, come il consiglio saggio detto a mezza voce nel frastuono del Titanic che affonda.

Almeno secondo me.

«Come terapia sociale, occorrerà guardare alla nostra storia, per vedere su cosa si è fondata. Ed è superfluo ripetere  che alle nostre spalle c’è un passato di redistribuzione, quel sistema realizzato dalle democrazie  cristiane e dalle socialdemocrazie europee. Che non riuscirà a innescare di nuovo la crescita ruggente all’americana, ma proverà a restistere agli scossoni dell’economia».

«Dovremo abituarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine».

Forse il messaggio è: abbiamo distrutto le utopie politiche, calpestato l’idea di una società etica, ignorato le potenzialità del capitalismo responsabile, il minimo che può succederci è rimanere con meno soldi in tasca.

E – quel che è peggio – con la miseria nell’anima.

E’ questo che volevi dirci, grandissimo Edmondo?

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