Che c’è di nuovo? Bernbach.

flowers

Alla notizia, annunciata la sera degli Adci awards, del nuovo libro su Bernbach di Mara Mancina avevo reagito un po’ così. Ma come, Bernbach. Mi faceva un po’ l’effetto… dei Promessi Sposi.

Certo, il genio fondatore della nostra professione, certo volkswagen-avis-mysonthepilot ecc ecc, ma insomma, il mondo va avanti, dai, senti gli studenti come fischiano, altro che Bernbach.

Poi l’ho letto, l’ho trovato bello.

Soprattutto, vi ho trovato molta attualità.

Innanzitutto, Bernbach realizzò subito, nella sua agenzia, quella muticulturalità che sarebbe divenuta la norma del mondo moderno (mentre in quegli anni le agenzie di pubblicità erano off-limits a ebrei, italiani, irlandesi, latinos… insomma a tutti quelli che non fossero alti, biondi e da poco usciti da quei tre-quattro campus giusti).
Lui accolse tutti (seguendo la famosa doppia regola del talento+simpatia), arricchendo la propria azienda della ricchezza culturale di coloro che vi entravano.

(Che belle le pagine sul costume e le usanze di Madison Avenue, sembra di esserci, in quei mitici corridoi, tra Raymond Rubicam e Helmut Krone).

Inoltre, capì forse per primo il grande patrimonio della non-specializzazione (“li prendiamo da molte aree, quello che serve loro sapere della pubblicità glielo insegnamo dopo”).

Ma soprattutto, la sua fortissima carica etica, la sua sensibilità verso l’onestà in comunicazione sembra quasi farne un protagonista del live-web, quarant’anni prima.

Mi spiego meglio: la trasparenza che si impone in questi nostri tempi di web-oriented judgement (una tendenza imperiosa che qualcuno ha già definito transparency tiranny) lui la praticava regolarmente, focalizzandosi inesorabilmente sempre su un punto: l’onestà del prodotto.

A me sembra, per esempio, che un concetto così potrebbe benissimo essere la riflessione di un corporate blogger:

Un ottimo annuncio farà fallire più velocemente un prodotto cattivo perché farà capire più in fretta a molta gente che è un cattivo prodotto.

Oppure quest’altro, ditemi se non sembra un trailer per il Cluetrain Manifesto, o chessò, la prima riga di “Permission marketing“:

Non potete vendere a un uomo che non vi ascolta.

C’è poi quel bellissimo annuncio, intitolato “How to do a Volkwagen ad“, che si può anche vedere come esempio di user generated content ante-litteram:

1.
Look at the car.
2.
Look harder. You’ll find enough advantages to fill a lot of ads. Like the air-cooled engine, the economy, the design that never goes out of date.
3.
Don’t exaggerate. For instance, some people have gotten 50 m.p.g. and more from a VW. But others have only managed 28. Average: 32. Don’t promise more.
4.
Call spade a spade. And a suspension a suspension. Not something like “orbital cushioning”.
5.
Speak to the reader. Don’t shout. He can hear. Especially if you talk sense.
6.
Pencil sharp? You’re on your own.

E sulla pagina di destra l’ingombro per la foto e la body.

Inoltre, un mio pallino (quello che la pubblicità sarebbe migliore se le agenzie fossero gestite dai creativi che le hanno fondate) trova in queste pagine un bel rafforzamento, firmato Bill:

Un vantaggio che apprezzo e una cosa di cui sono orgoglioso è che, come presidente d’agenzia, sono un creativo. E se ora verifico il lavoro dei miei copywriters è perché ho fatto prima di loro ciò che loro fanno ora; conosco i loro problemi perché li ho vissuti; sono passato dalla loro stessa esperienza.
Io non sono un semplice uomo d’affari che s’impone loro (…) cerco invece di scoprire il talento e di alimentarlo.

(Sapete perché la WPP si chiama così? Dal nome della prima azienda del gruppo, la Wire Plastic Products. Cosa c’entra? Appunto).

Infine, sento di dover dar conto di quell’iniziale perplessità.

lo farò con qualche domanda all’autrice:

1.
Perché questo libro non porta qualche punto di vista dei giovani eredi del Genio (per esempio di Vicky Gitto, attuale direttore creativo DDB Italia)?

2.
Perché non aprire le campagne del Maestro a un bel workshop di una scuola di comunicazione e vedere cosa ne viene fuori, e magari farci una piccola appendice?

3.
Insomma, perché vedo meglio questo volume nel lussuoso scaffale vetrato di un colto professore universitario, piuttosto che nello zainetto di un affamato stagista alle prese con il suo difficile sogno?

Ecco qua, era un piccolo rospo, ora mi sento meglio.

(Ah, dimenticavo: se volete sapere dov’è andato John Bernbach, figlio di Bill, dopo pagina 241, leggete qui).

4 commenti
  1. cetri ha detto:

    L’avevo addocchiato in una borsa semiaperta di una ragazza in università (ma visto che era fotocopiato direi che è stato consigliato come testo per un esame) e subito ho cercato notizie su internet. Avevo quindi sentito il brano postato da Marco Massarotto sul blog dell’adci e mi ero ripromesso che sarebbe stato mio.
    Però a casa non ho nessun lussuoso scaffale vetrato, anzi.
    Poi per carità, un libro non fa mai male, ma vorrei cercare di capire il perché delle tue perplessità.

    PS: felice di aver letto il post sopra “Diamoci del tu”.
    Nei commenti del post precedente mi ero preso la libertà di farlo perché visto il tono dei tuoi messaggi e dei tuoi consigli mi sembrava più appropriato alla situazione (anche se qualche dubbio sulla persona da usare ammetto che c’è stato).
    Questo non significa certo che posso anche solo lontamente considerarmi un collega o qualcosa di simile, però credo che a volte il “lei” sia solo un inutile ostacolo.

  2. ciao, don’t worry per il tu, fossimo americani non sprecheremmo parole inutili. bernbach è un ottimo libro, senz’altro consigliabile.

    le mie perplessità nascevano dalla considerazione che, a mio parere, è un testo che tratta l’argomento da un punto di vista quasi accademico.

    potrebbe essere stato scritto nel 1980 o nel 2060, secondo me.

    ma non per questo è meno valido. bernbach è stato uno dei pochi grandi del nostro mestiere: lui, ogilvy, seguela: per un creativo che ha voglia di sapere dove e com’è nato il suo mestiere non c’è di meglio.

  3. beh insomma, se è seduto su quella poltrona, tecnicamente… in un certo senso… in parte… in piccola parte… insieme a tanti altri… negli anni… nel mondo… (disclaimer: non sono parente di vicky gitto, e neanche di bill bernbach)

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