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ridere del marketing

Sapevatelo, dice Corrado Guzzanti.

Qui si può richiedere (gratuitamente) l’ebook di 26 pagine “Email Marketing Horror – quando l’errore diventa orrore” a cura di Web Marketing Garden, con l’art direction di Laura Coppola (Monkey Business).

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Quando chiudi Email Marketing di Roberto Ghislandi hai la sensazione di aver letto un vero trattato, di quelli belli, completi, onnicomprensivi.

Inoltre – scusa se è poco – sai tutto sull’email marketing.

Non capita spesso di incontrare opere così esaurienti e devo dire che la stima che già avevo per il suo autore, conosciuto frequentando un corso, è aumentata ancora dopo questa lettura.

Insomma, il supermanualone mi ha entusiasmato. Ora provo a spiegare perché.

Intanto, un libro così è il sogno di chiunque pratichi l’autoformazione (cioè di chi cerca di capire in prima persona, chi studia la notte, chi ci tiene a sapere bene le cose, anche se poi magari delega).

Perché ti spiega. Ti fa capire. Ti mette in condizione di fare un buon lavoro.

Di nuovo, scusa se è poco.

Poi, non si ferma ai tecnicismi. Software, conversioni, deliverability, opt-in e opt-out… il know-how tecnico c’è tutto, ma non è dominante.

Anzi, direi che non è per niente necessario capire e applicare la formula che definisce il tasso di rinnovo delle liste, pubblicata a pag. 124:

K = x (Na – Ne)/Ntot
dove
K = (Na – Ne)/(Na + Ne) se Na – Ne ≠ 0, altrimenti K = 1

perché l’ottimo Ghislandi permette di comprendere la materia anche al di là e al di sopra di tutto questo.

Last but not least, è un libro intriso di cultura della rete.

E’ forse questo il suo aspetto più interessante, non è un libro per maniaci ossessivi dell’email marketing (ci saranno… io da parte mia sono abbastanza un patito), ma un libro di web marketing, dove la comunicazione via mail è inquadrata nel contesto dei dialoghi in rete e delle innovazioni che le hanno via via consentite, dalla famosa iniziativa virale di Hotmail ai social network.

Il tutto in un quadro dove la coda lunga, Google e Tim O’Reilly stanno al loro giusto posto.

Tra le chicche, il link al video dei Monty Python che ha creato l’espressione Spam (lo ripubblico qui sotto perché è troppo bello), l’esame comparato e approfondito (14 pagine) dei software per email marketing, la lista dei 20 errori più comuni nelle comunicazioni email.

Per chiudere, tra i motivi che mi hanno fatto apprezzare il libro c’è anche l’aver “vissuto” il tema sulla mia pelle, prima di incontrare tutto questo know-how. E’ stato curioso verificare qualche ipotesi, valutare a posteriori il lavoro fatto, cercare di capire la teoria dopo… aver giocato con la pratica. Come copywriter e come imprenditore.

E qui non posso non ricordare che le mie email per Monkey Business sono entrate nei casi di studio trattati dal libro… e se un “grazie” all’autore è d’obbligo, spero che la gratitudine non abbia inficiato la mia lucidità di giudizio :-)

Il libro in una frase:

Se guidate un’azienda, se fate marketing, se siete professionisti della comunicazione, soffermatevi a valutare l’importanza strategica di ogni singola email che scrivete. Se lo fate, vi ritroverete sicuramente a leggere questo libro, e con soddisfazione.

Il blog dell’autore si chiama Email caffè.

E adesso buon divertimento con i mitici Monty Python.

Ma è sufficiente un blog aziendale per evolvere il proprio marketing?

Questa la domanda che mi girava in testa nei giorni in cui qualcuno
mi ha gentilmente invitato ad andare a sentire la presentazione dei risultati della ricerca di Enterprise 2.0 (che sarebbe l’osservatorio del Politecnico sugli strumenti partecipativi all’interno dell’azienda, come blog interni, wiki, piattaforme condivise, forum aziendali, virtual workspaces ecc).

E in un certo senso mi si è parata davanti la risposta (che è no).

(Un po’ me l’aspettavo, nella mia testolina, che non bastasse aprire un account su WordPress.com per far diventare l’azienda la più tosta del mondo e cavalcare la coda lunga dietro a Jeff Bezos, ma, come dire… molte tessere del ragionamento mancavano all’appello).

Grazie all’eccellente lavoro svolto dal team di Mariano Corso e Stefano Mainetti mi è parso di realizzare cosa c’è dietro, o se preferite, cosa viene prima, di quel famoso momento “gimme a blog!” su WordPress (o altrove).

C’è dietro un modo diverso di concepire l’azienda.

Paroloni.

Ma mi sa che è vero.

Altrimenti, se non concepisci un’azienda diversa, come puoi accettare che

“i dipendenti non distinguono più tra risorse interne ed esterne”?

o che

“le persone devono potersi portare in azienda le proprie reti sociali”?

o, ancora, che

“va garantita a tutti la possibilità di configurare il proprio ambiente di lavoro in assoluta libertà”?

Allora, solo allora, il blog aziendale prende senso, perché forse l’azienda farà percepire fuori, grazie a quella forma osmotica di comunicazione che è il blog, i valori che crescono e si sviluppano dentro.

Con questo non voglio dire che un blog aziendale non può essere un bel punto di partenza, ma se non lo si prende per quello che è, cioè la straordinaria occasione di ripensare l’azienda (anche per gradi, un po’ alla volta, strada facendo…) beh, forse il sito-vetrina del’88 in fondo va bene lo stesso :-)

***

[NOTA – Le tre frasi virgolettate qui sopra sono riprese dai “bisogni emergenti dell’enterprise 2.0” presentate nel convegno, che riporto:

1. social network (desidero relazionarmi con gli altri, sia dentro sia fuori l’azienda, per mantenermi aggiornato e professionalmente valido)

2. conoscenza in rete (la mia preparazione passa anche da strumenti condivisi in rete)

3. collaborazione emergente (devo poter collaborare sempre, comunque e immediatamente, con sistemi che vanno dalla chat all’instant messaging, dall’agenda condivisa al co-editing di documenti di lavoro)

4. appartenenza aperta (il mio sistema di riferimento non è solo l’azienda, ma qualcosa di più grande, che va oltre)

5. riconfigurabilità adattativa (devo essere in grado di poter riconfigurare i processi del mio lavoro in modo flessibile e personalizzato, visto che la tecnologia me lo consente)

6. global mobility (spazi e orari del lavoro sono sempre più flessibili, grazie alle tecnologie abilitanti)].

Il blog marketing reloaded, del dream team 2.0 del Politecnico di Milano, rilancia (hanno la mania del reload, bisogna capirli, con quel nome :-)) le 13 verità tragicomiche del marketing italiano con gli altrettanto paradossali 7 teoremi della multicanalità:

1. I clienti multicanale sono adolescenti che scaricano le suonerie sul cellulare

2. I blog sono più di 80 milioni al mondo ed un medium a basso costo per investire in advertising

3. Se avanza budget di comunicazione fai un video virale

4. Crea un corporate blog ed incarica la tua agenzia di animarlo

5. Il successo di una comunità si misura sul numero di iscritti

6. L’investimento in comunicazione su Second Life si ripaga in pochi mesi

7. La tecnologia ha ucciso il marketing

Mi avevano già divertito al convegno sulla multicanalità nel novembre scorso, simpatico da parte loro accostarli alle verità tragicomiche… grazie!

(Ricordo che “Le 13 verità tragicomiche del marketing italiano” sono un e-book Monkey).

Copio e incollo questa esilarante serie di contro-claims (?) da Why advertising sucks (thanks!).

• Coca-Cola, It’s totally worth the kidney stones.

• Durex, you know you want to cum inside.

• Budweiser, from saintly to slutty in just four beers.

• Everlast, because you know hitchhikers always get killed in scary movies.

• Marlboro, it might kill you but what are you going to do after sex? Eat tofu?

• Krispy Kreme, the new answer to PMS.

• Burger King, what Nicole Ritchie is missing out on.

• Mac & Cheese, easier to do than Paris Hilton

• Ford F-150, compensate for a small penis the manly way

• Tic-Tac, because some people smell like they gave a camel a rim job

• Taco Bell, a high colonic in a hard or soft shell.

• Tom tom, only a product named like a man would never have to ask for directions

• Johnnie Walker, because sometimes you need to cope with not getting a blowjob

• Cuervo Gold, making hoes out of catholic school girls for over a century

• Ruth Chris’ Steakhouse, because sometimes you can’t help but want to be stuffed with meat.

• Broken windshield, chemical warfare, hostage situation? Count on the brand you can trust, Duct Tape

• Samuel Adams, because on the 7th day, God wanted a real beer.

• Johnson and Johnson Baby oil, because if you get a hand job, you want it done right.

• Sony, coming up with more shit to spend your check on.

• PS3, bathing has ceased to be a priority.

• Clamato, part of a well balanced hangover.

• Coach, for the financially endowed yet fashionably unsound.

• TiVo, sorry guys, no excuse to not fuck on Sunday anymore.

• K-Y Jelly, oh yes it fits.

Voci attendibili riferiscono di un interessamento del marketing della Coca-Cola a un azione di guerrilla senza precedenti.

La cosa coinvolge il Vaticano, dove pare si sia svolto oggi il seguente dialogo.

Manager di Atlanta: monsignore, il mio gruppo desidererebbe inserire la Coca-Cola nel Padre Nostro. Senza stravolgerlo, solo una piccola modifica, verso la fine. Dove ora si dice *dacci oggi il pane quotidiano* si dovrebbe dire *dacci oggi la nostra Coca-Cola quotidiana*.

Monsignore: ma si rende conto?

Manager di Atlanta: mi rendo conto, ma il mio gruppo è pronto a compensare il Vaticano con 100 milioni di euro.

Monsignore, impassibile: come dicevo, ma si rende conto di quanto ci costerà rescindere il contratto con quelli del pane?