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tre libri sul comodino

Libro Assange Internet è il Nemico OhMyMarketing

Julian Assange dice che nelle vene degli stati scorre forza coercitiva.

E che Internet, da utopia per un mondo migliore, si è trasformata nel nemico.

Il libro si presenta sotto forma di una chiaccherata con tre attivisti della rete accomunati ad Assange sia per WikiLeaks, sia per un comune sentire sui temi della libertà di informazione: Jacob Appelbaum, Andy Müller-Maguhn e Jérémie Zimmermann.

Appuntamento tra qualche giorno per la solita mini recensione!

Recensione The Filter Bubble

Mi sono interessato a “The Filter Bubble” dopo aver letto l’articolo di Marco Massarotto uscito nell’agosto scorso su Chefuturo!

Sul libro  – pubblicato in Italia da Il Saggiatore con il titolo “Il Filtro” – è stato scritto molto, e leggendo la recensione di Luca De Biase ho scoperto quelle di Cory Doctorow su Boing Boing, Evgeny Morozov sul New York Times e Jacob Weinsberg su Slate.

Il libro è un’analisi di ciò che il web potrebbe rappresentare ( oforse rappresenta già) per tutti noi: non più occasione di crescita, aperta e condivisa, ma filtro, filtro pernicioso e strumento di differenziazione informativa, quindi – in ultima analisi – di discriminazione.

La tesi è che su Internet sempre più ci viene mostrato solo ciò che attiene ai nostri interessi – cosa che rendiamo nota attraverso ciò che pubblichiamo e i siti che visitiamo – e tutto questo finisce per creare una enorme distorsione nella nostra percezione della realtà.

Questo non solo da parte nostra, ma anche da parte di chi gestisce le informazioni, e le propone/vende ad altri, suggerendo implicitamente conclusioni sul nostro conto non  corrette.

Un esempio? La faccio un po’ sempliciotta, ma non credo di sbagliare di molto:

Secondo Pariser, se su Facebook sono amico di qualcuno che ha avuto problemi a rimborsare un pagamento rateale, un ente finanziario che utilizza banche dati provenienti dalla rete potrebbe ritenermi un cattivo pagatore, e rifiutarmi un credito, sulla base di queste evidenze.

Non male, no?

Eli Pariser ha vissuto tutto il web “bello”, facendo della rete lo strumento del suo attivismo civile, in qualità di fondatore del movimento americano Move On, e da  conoscitore delle dinamiche della rete vi ravvisa oggi (anzi, vi ha ravvisato nel 2011, data in cui è uscito il libro) dei pericoli piuttosto sostanziali.

Per difendersi da questa “bolla”, il sito filterbubble.com suggerisce, in un post del 2012, dieci cose che è possibile fare, mentre qui trovate alcuni suggerimenti di Vincenzo Cosenza.

Non so dire se il libro racconta uno scenario potenziale o descrive qualcosa di già reale; devo dire che, sommando la paurosa quantità di informazioni che immettiamo in rete tutti i giorni all’appetibilità di questi dati sul mercato, riesce difficile credere che il web si mantenga quell’ambiente aperto e libero come molti di noi amano credere.

Pariser racconta molto bene le sue tesi, e davvero questo libro fa riflettere, tanto più si è presenti in rete.

Tra le molte cose che mi sono piaciute, la carrellata sull’etica hacker – vera e propria matrice culturale di un preciso modo di pensare la Rete – e i tentativi di approfondire la conoscenza di quanto davvero Google potrebbe “farci male”, se volesse (fa impressione il passaggio dove Pariser fa capire, in modo nemmeno troppo velato, che forse certi aspetti sfuggono al controllo anche all’interno della stessa big G).
Da qui nasce spontanea la domanda: come essere sicuri di essere al sicuro?

Di seguito trovate anche il video della  presentazione al TED, mentre questo è il libro in una frase, come faccio sempre:

Se su Internet stai usando un servizio che non costa nulla, significa che il prodotto in vendita sei tu.

Come dicevano nel film omonimo, good night and good luck.

Sono tanti i motivi per cui penso che dovremmo tutti andare a mettere un chiodo nel nuovo #divanoXmanagua di Berto Salotti – cliente della mia agenzia, lo dico subito.

Mi pare quasi un dovere, partecipare a questo progetto di “costruzione condivisa” di un prodotto, con finalità formative verso i nostri giovani, e solidali verso i giovani di una parte sfortunata del mondo… ed ecco perché.

– Perché la co-creazione è uno dei punti fermi del marketing come si fa oggi, e dei nuovi scenari di consumo (son passati sei anni da quando l’ho letto la prima volta su Marketing Reloaded)

– Perché è un modo di valorizzare il lavoro artigiano italiano, in modi lontani dalla retorica (fare, non parlare) e dagli stanchi modelli del Made in Italy

– Perché punta sul futuro: il team di lavoro sarà costituito da tutti coloro che vorranno partecipare, ma avrà una componente fissa di studenti futuri artigiani + maestri con 40 anni di esperienza

– Perché ha un’anima solidale, prevede infatti di vendere il divano all’asta e devolverne il ricavato – tramite Terre des Hommes Italia – a una scuola per falegnami in un luogo dove i giovani non lottano solo per il lavoro, ma anche per la legalità, i diritti di base e spesso la vita stessa: il Mercado Mayoreo di Managua (Nicaragua)

– Perché aiuta l’economia di un territorio che ha data tanta ricchezza e lustro all’Italia, quindi a tutti noi: la Brianza

– Perché tutto questo viene da un’azienda, ed è straordinario, a mio parere, che ci siano imprenditori capaci di innovare – insieme al proprio business – pezzi di società che in un mondo ideale dovrebbero essere di area pubblica, per quanto incidono su economia, formazione, attenzione al territorio

Questo per dire che il 31 gennaio a Meda – e in tutte le successive date – la mia presenza non sarà solo professionale. E’ la fortuna di avere un lavoro che piace, e dei clienti che lo sanno valorizzare :-)

Ora vi lascio con le parole di Paolo Ferrara, di Terre des Hommes, che vi descrive l’operazione.

Vi ricordate “Il mondo è piatto“?

Se non ve lo ricordate, rileggetelo.

Se non l’avete letto, leggetelo.

No, non sono diventato un dogmatico impartitore di ordini, ma quando un libro è capace di darti una nuova visione della vita e del lavoro, io penso che quel libro vada letto.

Ora, durante un recente viaggio negli Usa ho scoperto che lo stesso autore – uno che vince Premi Pulitzer come io vado al bar a Lambrate – ha scritto, insieme a un professore della Johns Hopkins University School, un libro sulla crisi degli Stati Uniti, sulla loro scellerata leggerezza degli ultimi due decenni, sulla disastrosa situazione in cui si trova la loro economia.

In sintesi, sullo stato di cose che ha fatto dire al presidente Obama:

It makes no sense for China to have better rail systems than us, and Singapore having better airport than us. And we just learned that China now has the fastest Supercopmputer on Earth – that used to be us.

(Ed è così che si chiama il libro, That used to be us).

E io che c’entro, direte voi?

C’entrate, perché anche voi avete paura di perdere il lavoro, a causa di cose tipo, chessò, che il debito pubblico americano è nella mani dei cinesi. O temete che vostro figlio finisca a servire Dim Sum in un fast food cinese.

E Friedman si sofferma anche su queste cose (ed è questo che gli fa vincere i Pulitzer, secondo me: che mentre leggi i suoi saggi capisci che parla di te).

E arrivo alla mia abitudine di sintetizzare il libro in una frase, traendo spunto da una pagina che ho citato anche sul blog BertoStory:

Come faccio a gestire il mio futuro, la mia professione, il mio posto di lavoro in un mondo che cambia freneticamente, dove tutto ciò che può fare una macchina… è solo questione di tempo – lo farà lei al posto dell’umano che lo fa ora, come devo fare per difendere il mio lavoro o cercarmene uno?

Friedman-Mandelbaum suggeriscono tre atteggiamenti mentali:

1.
Pensa come un immigrante, cioè: non dare nulla per scontato, fai grande attenzione al mondo intorno a te, impara continuamente

2.
Pensa come un artigiano, cioè: metti un tocco personale, uno stile unico in tutto ciò che fai, e vanne fiero; comportati come se ogni cosa fatta da te portasse le tue iniziali

3.
Pensa come una cameriera, cioè: anche se il tuo lavoro non ti permette interpretazioni, se sei un esecutore, trova il modo di aggiungere un extra, come quel cameriere che ti porta la braciola con un contorno abbondante e ti dice “ti ho messo un po’ più di patatine”, segno che si è chiesto come poteva, nell’ambito limitato del suo lavoro, creare una differenza per sé

In sostanza: cercate fare quello che una macchina non potrà mai fare.

E buona fortuna.

L’ho letto, l’ho riletto, poi l’ho regalato. L’ho consigliato, l’ho fatto leggere. Ne ho comprati ancora, che ho dato ai miei collaboratori. Un giorno che avevo un dubbio, ho comprato al volo la versione ebook, e poi ho messo in giro anche quello.

Ho portato con me questo libretto per quasi tutto l’anno (era il 1° marzo quando lo misi sul comodino), e ancora adesso è qui accanto al mio computer, sulla cui scrivania è peraltro ben piazzata anche la copia digitale, in pdf.

Per me, il bello del lavoro online ha molto a che fare con l’estendere la rete.

Con questo intendo dire che sono particolarmente attratto dai modi, lavori, opportunità di portare rete dove non c’è.

“Portare rete” significa anche usare strumenti nuovi, strumenti in grado di modificare i modi in ci ci si relaziona l’uno con l’altro, e Twitter – come sa bene chiunque si sia mai avvicinato a questo social network – è così diverso da risultare addirittura spiazzante.

In tutto questo, un libro come quello di Federica Dardi,  aka @elisondo è un bell’aiuto: insegna, spiega, avvicina, aiuta, accompagna, suggerisce, risponde, stimola, diverte.

Personalmente, è l’approccio che preferisco, quello più utile a chi con queste cose ci lavora (come il sottoscritto) ma anche più corretto verso chi queste cose le vorrebbe mettere nella giusta prospettiva: quelle di strumenti utili a farci qualcosa…

Insomma, alla domanda tipica di chi non riesce a “entrare” nello spirito di Twitter, ora c’è una risposta: un libretto blu edito da Apogeo e scritto da una blogger che ama i libri e ne studia presente e futuro.

Dimenticavo… la mia solita frase che riassume il libro:

Prima di giudicare frettolosamente un modo di comunicare che avvicina  qualcosa come 460.000 persone al giorno tutti i giorni, concedetevi il lusso di capirlo in un modo che non richiede nessuna fatica: un libro scritto bene.

La pubblicità.

Certi convegni.

Alcuni personaggi.

Mi chiedo se è l’effetto di una dieta mediatica prolungata, che dura ormai da alcuni anni (tim ferriss e la sua low information diet docet)… quando non vedi le cose per molto tempo, possono succederti cose così. O magari è il mio solito carattere che si stufa subito.

Di certo è meglio fare (scrivere, leggere, parlare) che guardare (la tv, il convegno, i personaggi).

Quando mi succede così mi viene da alzarmi, aprire il computer e costruire.

Domani inizia un altro anno scolastico.

A proposito di scuola italiana, leggendo Google Story ho appreso che il papà  (prof di matematica) del co-fondatore di Google Sergey Brin – dopo essere emigrato tra mille stenti dalla Russia agli USA con tutta la famiglia – iscrisse il piccolo Sergey a una scuola americana metodo… Montessori.

Buon lavoro a tutti, ragazzi e professori italiani.

Mi avvicino al libro, appena uscito, di Federica Dardi con un bel pregiudizio positivo: conosco e stimo Federica da tempo.

Questo rende tutto più difficile, se pensiamo all’obiettività della mia futura recensione, ma anche più piacevole, se pensiamo alla mia vita :-)

Obiettivamente: l’autrice è su Twitter dal 2007 (@elisondo) ed ha significativa esperienza nel campo delle internet p.r. aziendali. Attualmente lavora per la sua casa editrice, Apogeo, come junior editor e coordinatrice dei presidi online dell’editore.

Ops, quasi dimenticavo: su Twitter l’hashtag è #ApoTwitter. (Non sapete cos’è un hashtag? Comprate questo libro!).

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La milanese trapiantata a San Francisco Elisabetta Ghisini ha scritto, insieme ad Angelika Blendstrup, “Communicating the American Way: A Guide to Business Communications in the U.S.” con un focus molto preciso: spiegare agli imprenditori che arrivano negli Usa (ma forse dovrei dire in Silicon Valley) come comportarsi per:

1. Farsi accettare dalla business community
2. Soffrire (professionalmente e umanamente) il meno possibile lo shock culturale
3. Spianarsi la strada della carriera negli Usa

Secondo me il libro avrebbe potuto intitolarsi “Communicating the business way”, perché mi è parso un intelligente e approfondito trattatello su come comunicare in un business environment.

Spero che Elisabetta non prenda male quello che è secondo me un bel complimento, so bene che sto, in un certo senso, passando sopra l’attenta e raffinata prospettiva linguistico-culturale che permea ogni pagina del libro.

Ma l’operazione che ne è risultata, a mio parere, è di livello superiore.

Non conosco i pattern comportamentali nelle economie emergenti asiatiche, ma in Europa certamente il pragmatismo, la considerazione del tempo altrui, la coscienza dei rispettivi ruoli e il loro rispetto (almeno formale!), uniti a una certa informalità volta alla sostanza delle cose, ormai sono lo  standard. E se non fosse per gli americani, che hanno imposto un certo stile con la forza culturale che li contraddistingue, chissà, forse metteremmo ancora le maiuscole reverenziali nelle email.

Ecco perché mi sento di consigliare la lettura di questo libro, tout-court, non solo a chi si reca negli Usa con un’idea imprenditoriale in testa, ma a chiunque voglia comportarsi nel modo giusto all’interno di una business community.

Il libro in una frase, come di consueto:

Se non volete tempo in stupidi errori di comportamento, investite due ore nella lettura di questo libro!

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Sviluppo logico del discorso iniziato qui, con il volume “Sicurezza in Rete“, riguardante l’uso del web da parte dei bambini, quest’altro libretto affronta un tema ancora più vicino alla vita dei bambini e ragazzi, quello di Facebook e compagnia.

Se il primo è l’abc, questo è… buona parte dell’alfabeto, e di sicuro, con l’esplosione dei social network, una parte di alfabeto che i ragazzi usano sempre più (ricordo che l’accesso a Facebook è riservato agli over 13, ma i bambini delle elementari già ne parlano, li ho sentiti).

Ancora una volta, scopriamo che la regola magica non c’è, che i figli bisogna seguirli da vicino e non lasciarli soli davanti al PC, né più ne meno di quanto sia il caso di lasciarli soli davanti alla Tv. (Con una differenza, che la Tv non ti chiede di accendere la webcam mentre ti togli la maglietta).

Alla trattazione generale del tema della prima parte – sempre in linguaggio agile, facile e gradevole – si affianca una seconda parte piuttosto nutrita dedicata alle domande e risposte, ben 43 quesiti svolti con competenza e buon senso.

Personalmente apprezzo molto questo tipo di approccio, che tende a mettersi nei panni di te che leggi.

Qualche esempio:

E’ vero che i social network possono dare dipendenza?

Ma che diritto ho di controllare mio figlio?

Che cosa posso fare per impedire che qualcuno inganni mio figlio con false identità?

Che cos’è il sexting?

Come posso capire che mio figlio è vittima di cyberbullismo, o che è un cyberbullo?

C’è molto da imparare, a leggere questo ottimo volumetto, di cui ringrazio la Biblioteca di Telefono Azzurro.

Il libro in una frase, come sempre:

Se pensate di sapere cos’è un social network, ricordate che può non essere la stessa cosa per i vostri figli. Vale la pena di fermarsi un attimo a pensarci. Questo libro può aiutare la vostra riflessione.

Ho letto questo libretto con due cappelli: quello dell’appassionato di internet e quello del papà.

Dico subito che apprezzo l’opera di alfabetizzazione svolto da pubblicazioni come questa.

“Cos’è un computer”, “cos’è Internet”, sono domande ancora importanti, e fornire risposte competenti in modo comprensibile è secondo me doveroso. Altrimenti finisce che lo si impara dai TG, che hanno un debole per il lato perverso del web e ne parlano quasi sempre male.

Parlando di rete e di educazione, spesso la parte evoluta dei suoi utenti – cioè chi la utilizza in modo continuo e intensivo – dimentica l’altra parte, quelli che non navigano 18 ore al giorno, che non leggono libri su Internet, che non si raccontano su Twitter con l’iPhone.

Questo è già un problema per molti versi, ma se guardiamo il discorso in chiave educativa, la cosa diventa fondamentale.

La questione riguarda naturalmente i genitori prima di tutto. Cito da pag. 34:

A carico dei genitori, però, rimangono due impegni fondamentali. Il primo e più importante è stare accanto ai propri figli […] il secondo è di cercare di utilizzare anche in prima persona il computer per cercare informazioni in Internet, ricevere e trasmettere posta elettronica e – perché no? – chattare e videotelefonare con amici e parenti.

Avete presente quando assaggiate il piatto del bambino prima che lui inizi? Ecco.

Anche se non mancano informazioni sui programmi per il controllo da parte dei genitori (filtri famiglia/parental control) e riferimenti per le segnalazioni di siti inadeguati (114.it e hot114.it per i casi a sfondo sessuale), dal libro si impara che non ci sono facili ricette: l’unica è accollarsi la responsabilità di capire come funziona la rete, e accompagnare i figli online.

Come con la televisione e il motorino, insomma, anche online i comportamenti dei figli dipendono in gran parte da ciò che i genitori trasmettono loro.

Questa, con tutto il suo carico di responsabilità, credo sia una buona notizia per chi teme i “mille pericoli ignoti” della rete.

Il libro in una frase:

State vicino ai vostri figli (facile a dirsi, difficile a farsi) e tutto andrà per il meglio: loro arricchiranno le loro esistenze con il bello e il buono del web, voi vivrete nuove e sorprendenti manifestazioni della loro intelligenza.

Segnalo infine un altro titolo della collana di Telefono Azzurro, dedicato ai social network.

(Sia “La sicurezza in Internet” sia “Social Network” sono disponibili per il prestito e la consultazione alla biblioteca Valvassori Peroni di Milano… appena li riporto io ;-).

[Photo credits + copyright]

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Chi ha figli sa cosa significa mettere la potenza della rete davanti a un bambino.

Per questo cerco di documentarmi su quali siano gli atteggiamenti più opportuni da tenere, dal punto di vista educativo. (Tempo fa chiesi anche dei pareri su Friendfeed, la conversazione è a metà di questa pagina).

Il libro, edito da Telefono Azzurro, è uscito da poco (marzo 2010) e fa parte di una collana che prevede 18 titoli. Tra i quattro volumi già in libreria, c’è anche “Social Network”.
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Io so perché Paolo Iabichino ha scritto Invertising.

L’ha scritto perché gli è venuto questo bellissimo titolo.

Sono un copy anch’io e lo so che certe volte tutto inizia da un bel titolo. E Invertising è un titolo da premio. Un titolo di quelli che ci si fa una strategia di comunicazione dietro. Che poi ci si trova tutta una serie di argomenti di supporto validissimi.

E Paolo gli argomenti della comunicazione li conosce molto bene, infatti il libro è pieno di tante belle cose simpatiche, curiose, colte, sempre ben contestualizzate e convincenti.

A me però non è piaciuto.

Lo dico con imbarazzo perché conosco l’autore, l’ho conosciuto proprio in occasione dell’uscita del libro, e spero tanto non se la prenda. Magari è una di quelle persone che apprezza un giudizio sincero. Oppure non gli interessa, insomma Paolo non prendertela, per favore. Ho solo detto che non mi è piaciuto non che è brutto :-)

Il libro in una frase:

Il libro di una persona intelligente e colta, che non dice quello che dovrebbe, cioè che la pubblicità è alla frutta. (E ci credo, visto dove lavora). Bel titolo però.

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Invertising – titolo davvero bello (il copywriting non è acqua, signori) – è il libro di Paolo Iabichino, che di mestiere fa il direttore creativo della filiale italiana di una delle più grandi agenzie di pubblicità del mondo.

Parla della comunicazione pubblicitaria nell’era dei social network e della rete partecipata.

Un tema coraggioso e stimolante, per chi sta assistendo allo straordinario passaggio della comunicazione d’impresa dall’evo pubblicitario – monodirezionale, stolido e impositivo – alla dimensione liquida e iperevolutiva della rete e dei suoi nuovi linguaggi  (tema che ho provato a svolgere anch’io).

Si tratta di un passaggio tutt’altro che semplice.

Sono curioso di capire cosa ne pensa uno che – se non ho capito male – prende lo stipendio da chi fondamentalmente commissiona spot in prime time… (E dai Paolo non te la prendere, o non usa più prendersi in giro tra colleghi? In ogni caso ti sto mandando il mio Un etto di marketing, libro ideale da fare a fettine… ;-)

Passando a How to Communicate the American Way, si tratta di una chicca, di quelle che difficilmente scopri, e io l’ho scoperta, pensa un po’, nel mio ufficio.

E’ infatti un libro che è arrivato insieme all’autrice, Elisabetta Ghisini, per un seminario di “communication skills” tenuto al Cowo e rivolto – nientepopodimenoche – alle giovani imprese italiane che cercano venture capital negli Stati Uniti.

Lo so che detta così sembra una telenovela da tv aziendale, invece son stati due giorni tostissimi in cui l’Elisabetta (milanese trapiantata a San Francisco, dove è consulente di comunicazione interculturale) ha rivoltato come calzini una dozzina di baldanzosi startuppers nostrani, di Mind the Bridge e non solo.

Insomma, due bei libri mi attendono sul comodino… :-)

Prendersi tutto il gratis della vita, se non sbaglio era il motto di qualche eroe di Andrea Pazienza. (E io, per tener fede all’argomento, ho preso il libro a prestito, nell’ottima biblioteca Valvassori Peroni di Milano).

Il grande Chris dalla Coda Lunga non smette di sedurre con le sue teorie, e lo fa come sempre con grande scioltezza ed eleganza intellettuale.

Sentite qua:

Il denaro smette di essere il segnale principale nel mercato e al suo posto sorgono due fattori non monetari: quelle che spesso si chiamano “economia dell’attenzione e “economia della reputazione”;

Non ci vuole un dottorato per capire come mai il Gratis funziona così bene online: è sufficiente ignorare i primi dieci capitoli del vostro manuale di economia;

Per competere con il Gratis bisogna andare oltre l’abbondanza per trovare la scarsità adiacente. Se il software è gratis, voi vendete l’assistenza tecnica;

Il Gratis è un’attrazione costante in tutti i mercati, ma fare soldi con il gratis […] è una questione di pensiero creativo. […] Serve creatività per scoprire come convertire in denaro contante la reputazione e l’attenzione che potrete ottenere grazie al Gratis. Ogni persona e ogni progetto richiederanno una risposta diversa a quella sfida, e a volte non funzionerà affatto.

Bonus per tutti quelli che, come me, si sono stufati da tempo di gettare denaro in auto di proprietà:

Ispirandosi al settore della telefonia, BetterPlace progetta di regalare l’auto vendendo invece le miglia, a un prezzo inferiore di quanto costerebbero con un’auto tradizionale.

Il libro in una frase:

Non importa se a tratti può sembrare poco plausibile. Dall’uomo che ha fatto conoscere al mondo La Coda Lunga accettiamo volentieri una nuova visione, che ci faccia sognare un’economia diversa, dove l’attenzione conti finalmente quanto il profitto.

E infine, dal piccolo prospetto che racconta “come funziona”, ecco come cambia il piano di profitto:

Da “Modello di business” a “Ci penseremo prima o poi”.

Mi ricorda qualcosa
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Dopo molto tempo che non scrivo dei libri che leggo, riprendo da dove avevo lasciato: il minicapolavoro di minimarketing. (E’ stato sul comodino appena un anno…)

Essendo Gianluca Diegoli uno dei referenti del nuovo marketing in Italia, ed essendo il suo libro stato scaricato oltre 10.000 volte, mi pare che la rete ne abbia già decretato il meritato successo.

Tento di aggiungere qualche considerazione:

1. Gianluca non solo sa quello che scrive ma sa anche come scriverlo (due talenti al prezzo di uno)

2. La scelta stilistica delle minitesi è una vera chicca

3. Il successo dell’ebook ha le sue radici nella credibilità del suo autore, e questo, a mio modo di vedere, rappresenta la prova provata di cosa può fare una reputazione ben costruita

Non mi sottrarrò all’abitudine di raccontare il libro in una frase, anche se questa volta il libro da definire è lui stesso fatto di frasi :-)

Se amate il mestiere del marketing ma odiate i mestieranti, spegnete il powerpoint e aprite le orecchie: il Diegoli ci mette pochi minuti a spiegarvi come si fa.

Concludo con un’ultima lode: quella relativa al rapporto quantità di informazione/tempo richiesto per assimilarla. Secondo me solo un pugno in faccia riesce a battere le 91 tesi…

Poche pagine, tante idee: il rapportino gratuito di Forrester Reaserch è un ottimo spunto per la conversazione sui blog aziendali, specie in questi giorni in cui la blogosfera italiana elabora il lutto di due chiusure eccellenti: Desmoblog di Ducati e Duck Side di Mandarina Duck.

In sintesi, Josh Bernhoff (coautore anche di un libro piuttosto conosciuto sull’argomento, Groundswell) dice che, negli Usa, solo un consumatore su 6 crede ai blog aziendali, quindi approfondisce come dev’essere un corporate blog per non far scadere la sua credibilità.

Mentre la prima chiave ce la dà già nel sottotitolo della sua ricerca (With Corporate Blog Credibility Low, Blogging Only Makes Sense in Part of a Plan, cioè: ok il blog ma che non sia fine a se stesso), anche le conclusioni sono, a mio parere, degne di nota:

– Non scrivete di voi, ma dei vostri clienti, anzi: dei problemi dei vostri clienti
– Bloggate per i vostri fans, per catalizzarne e valorizzarne le energie
– Parlate delle questioni importanti per i vostri gruppi di riferimento
– Se siete un’azienda B2B, coinvolgete i vostri dipendenti (che conoscono bene le esigenze e i temi “caldi” degli interlocutori di ogni giorno)
– Usate il blog per dare voce umana alla vostra azienda
– Usate Twitter

Infine, Bernhoff sembra strizzare l’occhio con simpatia a quelle aziende in grado di condurre un blog aziendale senza usare toni aziendalesi e contenuti autoriferiti, quando suggerisce che molti consumatori, in questo caso estimatori, sembrano dire:

Certo che non mi fido dei blog aziendali, ma il vostro non lo sembra proprio!

I miei due cents: se concordo pienamente con il suggerimento di inserire il blog in una strategia di ascolto e di partecipazione più ampia (social network, condivisione, conversazioni) – non sono tanto d’accordo che un corporate blog non sia comunque un utile esercizio di trasparenza e disponibilità, perché, come dice Godin:

Ciò che importa è la coscienza di pensare a ciò che volete dire, come vi rapporterete con chiunque leggerà il vostro post, come obbligate voi stessi a spiegare – in tre paragrafi – perché avete fatto qualcosa.
Come ne risponderete, davanti a tutti.

Il rapporto Forrester in una frase:

Per vedere come si finisce, a fare blog senza impostare una strategia corretta, basta dare uno sguardo oltreoceano, dove sono sempre avanti (stavolta nello sbagliare).

Ha già riscosso un grande successo nella blogosfera, con 2000 download in pochi giorni, adesso ce l’ho anche io.

So già che mi piacerà, perché mi piace molto come scrive l’autore, Gianluca Diegoli, sul suo conosciuto blog (vedi la comodità di avere un blog…), che dà anche il titolo al libro.

Scaricabile gratuitamente qui.

Non è proprio un libro, ma un free report di Forrester Research, disponibile qui.

Sottotitolo: With Corporate Blog Credibility Low, Blogging Only Makes Sense As Part Of A Plan.

Beh, non si può negare, anche se

1.

Siamo in Italia e non negli USA, dove la blogosfera corporate ha qualche anno di vantaggio

2.

Seth Godin dice (e io condivido) che bloggare fa bene alle aziende, perché:

Ciò che importa è la coscienza di pensare a ciò che volete dire, come vi piegherete a chiunque leggerà il vostro post, come vi forzate a spiegare – in tre paragrafi – perché avete fatto qualcosa.
Come ne risponderete, davanti a tutti.

L’autore della ricerca, Josh Bernhoff, è lo stesso di Groundswell, libro che a casa mia è andato in libreria senza passare dal comodino (ma per il quale ho pronta la recensione di Gianluca Diegoli).

Fonte: Steve Rubel’s Micropersuasion.

Difficile leggere un trattato culturalmente più completo su un tema – se vogliamo – di settore come il marketing.

Ma forse è proprio questa la chiave di Societing: il marketing non è più una questione privata tra chi produce e chi acquista, ma – se riuscirà a rifondarsi, come auspicato da Fabris – coinvolgerà l’intera società, in uno scambio dove le merci fisiche sono soprattutto pretesti per comunicare. E la comunicazione, si sa, è ovunque.

L’impianto del libro è piuttosto vasto, e non nascondo che mi ha messo un po’ alla prova (parentesi di falsa modestia), ma credo di aver colto una completezza non indifferente, in particolare nell’inquadramento sociologico della società italiana, nell’affascinante analisi del postmoderno, nelle prospettive etiche della vera responsabilità sociale dell’impresa.

In particolare sull’Italia, mi ha colpito come ricorrano spesso, nel volume, i condizionamenti tipici delle due egemonie culturali nostrane: quella cattolica e quella comunista.

Due “chiese” che hanno sempre condiviso una visione radicalizzante e demonizzante verso consumi e mercato.

Peculiarità che non credo condividiamo con altri popoli, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, nelle cronache di tutti i giorni.

Peppone e Don Camillo, insomma, sembrerebbe essere la modernità italiana, sulla quale il postmoderno tenta un difficile (e ci credo!) innesto.

Comunque, le nuove dinamiche, spinte e ispirate dalle tecnologie – ma anche da nuovi, inattesi e umanissimi modi di condividere socialità – non sembrano attardarsi troppo su retaggi socioculturali di un secolo fa, e… peggio per chi non se ne accorge.

Il blog dell’autore non fa mistero di posizioni nette e visioni lucide, e fornisce insight interessanti al pari del libro, anche se con diversa profondità.

Societing – Il marketing nella società postmoderna mi ha fatto sentire come sui banchi dell’università (sui quali, peraltro, non mi sono mai seduto), a lezione da un professore curioso, ricco, stimolante, pragmatico, visionario e colto.

Il libro in una frase:

L’impresa sta ricevendo dalla società i segnali utili alla riformulazione completa del suo approccio al consumatore: 1. riconoscergli uno status di parità – 2. iniziare ad ascoltarlo – 3. scoprire come interessarlo e motivarlo a partecipare alla vita dell’impresa. Se non saprà ascoltare queste indicazioni, si ritroverà ben presto con il suo marketing in mano, inutile e inutilizzabile come un cerino bruciato.

Il libro di un grandissimo, uno dei maestri della pubblicità italiana e non solo, Pasquale Barbella. Non ho mai lavorato per lui, ma ho avuto occasione di leggerlo, ascoltarlo e, qualche volta, di parlargli. Mi è sempre sembrato un uomo in grado di coniugare il successo e lo stile (oltre che di scrivere come un dio).

Avere dei maestri è una cosa bellissima, purtroppo poi si diventa grandi…

Queste tre caratteristiche – 1. la contagiosità; 2. il fatto che piccoli cambiamenti possono avere grandi effetti; 3. il fatto che il cambiamento avviene non gradualmente, ma in un momento dato – sono gli stessi tre principi che definiscono il modo in cui il morbillo si diffonde in una classe delle elementari, o come l’influenza colpisce ogni inverno.

Delle tre, la terza, l’idea che le epidemie possano subire impennate o crolli in un momento critico, è la più importante, perché è quella che conferisce un senso alle prime due […]

Quel preciso momento di un’epidemia, quando tutto può cambiare all’improvviso è il Punto Critico.

Ecco da cosa si parte, secondo Gladwell, per capire il passaparola: dall’epidemia.

Una volta che hai capito come si diffonde un’epidemia, beh, puoi anche cercare di provocarla, e credo che il suo libro abbia avuto un certo impatto sullo sviluppo di quella parte di marketing denominata word of mouth (ne abbiamo parlato anche qui, a proposito del libro “Anatomy of Buzz“).

Io l’ho trovato gradevole, piuttosto ben fornito di argomenti, senz’altro interessante nel complesso, anche se non posso negare di aver percepito gli anni che ha (otto).

Questo non gli toglie validità, però – se devo essere sincero – credo vi siano libri successivi (questo, ad esempio) che in qualche modo lo comprendono, magari ampliandone i concetti grazie agli sviluppi che nel frattempo vi sono stati, nella rete e nella società.

Il libro in una frase:

Alle basi del marketing virale: un bel viaggio nella storia dei virus. Lasciatevi contagiare, vi piacerà…

Pe me Giampaolo Fabris è un business hero dei rampanti anni 80.

Non lo amavo per nulla, esasperati come eravamo dalla moda delle ricerche, di cui lui era una delle figure di riferimento (hai presente il focus group contro la forza della creatività? Ecco).

Però questo suo libro mi attira, anche perché – al di là di tutto – mi fa sempre piacere trovare riferimenti italiani nei testi di marketing, campo dominato dagli anglosassoni.

Se amate la parola scritta non potrete non amare l’appassionato racconto di Stephen King (portale italiano qui).

Pieno di storie interessanti, frasi memorabili

Giunse al Fiume. Il fiume era lì. (Hemingway)

insegnamenti di scrittura intrisi di spirito, acume, empatia, modestia e poi… il colpo di scena dell’incidente che lo ha mezzo ammazzato, a metà della stesura di On Writing, e come il lavoro lo abbia aiutato a guarire.

Tra gli insegnamenti:

Diffidate della trama (le nostre vite ne sono prive).

La via per l’inferno è lastricata di avverbi.

Scrivere non è lavare la macchina o mettersi l’eyeliner.

Scrivete con la porta chiusa e riscrivete con la porta aperta.

Il libro in una frase:

Vita! Mostri! Ricchezza! Povertà! Amore! Droga! Carrie! Shining! Tutto quello che avreste voluto sapere sul come diventare un romanziere da 30 milioni di copie e non avreste mai osato chiedere!

Stevie King, signori e signori. Un Re.